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sabato 11 dicembre 2010

C'era una volta "a putìa di Turi da ghiesa"


E’ stato, forse, uno sbadiglio del tempo. Ché se non si era lì a guardare, in quel breve lasso, neppure lo si notava. E anche dopo esserci stato, è passato quasi inosservato. In breve, dimenticato.


Avere all’incirca 25 anni nel 2010 significa essere nati giusto in tempo per vedere il finire del nostro “mezzo secolo breve”. Sembra se ne sia andato quatto quatto come chi capisce che, a un certo punto, può anche andare via ché nessuno se ne accorge. Quando iniziò e quando finì, questo mezzo secolo breve, di preciso ancora non sappiamo dirlo, dovremmo studiarci un po’ sopra e recuperare informazioni più precise, ma grosso modo, ad occhio e croce, diciamo che va dal dopoguerra alla seconda metà degli anni ottanta. Accadeva, in quel lasso di tempo, che le nostre campagne si scoprivano ad ospitare scuole, asili, campi sportivi, botteghe, macellerie e piccole attività di vario tipo. C’era chi si prodigava a portare “comodità”, o nuovi segni della “civiltà” lì dove prima c’erano solo terre da conquistare a pietre, rovi, cardi e lucertole e nascevano, ad esempio, le scuole di Francari, S.Francesco, S.Ignazio, Casale ormai abbandonate, diroccate, o affidate ad associazioni culturali e/o ricreative. Nascevano i campi da calcio di S.Ignazio e quello, sconosciuto a molti, “da Rinedda”. Nascevano botteghe, meglio note come “putìe”, alcune ancora aperte.


C’è ancora chi ricorda una bottega chiusa ormai da una ventina d’anni: sorgeva accanto alla chiesa di Francari ed è ancora nota a tutti come “a putìa di Turi da ghiesa”. Ci andavamo, bambini, nei pomeriggi d’Estate a prendere il gelato (in alternativa, all’epoca, passava ancora il gelataio a Francari!). Come che era ci si andava e ci si incontrava con gli altri ragazzi del vicinato e si finiva per giocare a biliardo, a nascondino o ad inventarsi pugnali e pistole di banditi e pirati con un legno ed un coltello. In tempi ancora più lontani a putìa di Turi ghiesa era per i nostri nonni il luogo d’incontro di tutta Francari e Maddalena. Ci si andava soprattutto la Domenica in un’epoca in cui la Domenica era giorno di riposo. Raccontano ancora che il Sabato sera si prendeva l’acqua alla sorgente perché la Domenica non si faceva neppure quello. E s’andava, così, alla putìa, dove, al cospetto del Castelluccio, si giocava a carte e tra briscole, scope e tresette, si beveva vino e si raccontavano storie di cacciatori, storie di offese e di vendette, di briganti e di vendemmie.
Fu così che una Domenica pomeriggio dei giorni nostri “Turi da ghiesa” ci raccontò la sua storia della sua “putia”:

Turi da ghiesa la signora Maria
Ho aperto la bottega nel 1962. Prima facevo il potatore e mi è anche capitato di lavorare fuori dalla provincia di Messina. Ho cambiato lavoro per non allontanarmi più dalla mia famiglia e dalla mia casa. 
La mia bottega era situata a Francari, vicino alla chiesa dove io e la mia famiglia abitavamo. Non aveva un’insegna e, per identificarla, le persone facevano riferimento a me che ne ero il proprietario. Tutti mi chiamavano Turi da Ghiesa e quindi questa bottega la chiamavano tutti "a putia di Turi da Ghiesa".
Vendevo generi alimentari di prima necessità (pane, pasta, zucchero, farina, fagioli,…), pochi generi alimentari secondari (birra e bibite, gelati) e foraggio (coniglia, fave, granturco, orzo. . .). Avevo una clientela abituale che veniva dalle contrade vicino come Casale, Maddalena, S. Francesco. . . ma c’erano anche clienti che venivano da Montagna Reale, Bonavita. In tempi di politica, però, molti non venivano ad acquistare nella mia bottega a causa degli orientamenti politici che loro appoggiavano e che erano opposti al mio.

A quel tempo non c’erano i fornitori e i rappresentanti di adesso e dunque ero io a procurarmi la merce. Per la maggior parte, mi fornivo dalle botteghe di Gioiosa (soprattutto da Spanò, attuale Sigma) e portavo sacchi di farina da 50 kili sulle spalle e a piedi; altrimenti partivo con il mio camion e andavo fuori paese (Messina, Catania).

La bottega era gestita da me e da mia moglie e al bisogno, e soprattutto quando ero fuori per rifornirmi di merce, dai miei figli. L’orario di apertura era di solito dalle 7.30 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 21.00, ma questi orari difficilmente venivano rispettati perché spesso i clienti venivano nell’orario di chiusura anche per un pacchetto di sale.

Alcune caratteristiche dei prodotti di 40 anni fa: per esempio, la pasta non era confenzionata e porzionata nei sacchetti di un kilo o mezzo kilo ma si vendeva sfusa. Si teneva in dei contenitori o sacchi, si prendeva con la “sarsola” e si pesava in base alle richieste del cliente. Lo stesso avveniva con i legumi. Per quanto riguarda le bottiglie delle bibite erano soprattutto di vetro, pochissime di plastica. Inoltre, quando il cliente acquistava una bevanda pagava la bevanda e una minima somma per il vetro perché le bottiglie vuote dovevano essere restituite alla bottega: in questo modo, al cliente che riportava le bottiglie restituivo quei soldi pagati anticipatamente, in caso contrario essi rimanevano a me e non li rimettevo di tasca mia (anche se mi è successo una paio di volte). Su alcuni tappi della birra Prinz Bravo, poi, i produttori avevano messo una stella gialla; il cliente che la trovava aveva diritto a 10.000 lire e una confezione di birra gratis.

Ovviamente, così come oggi, anche allora c’erano clienti che acquistavano senza pagare al momento dell’acquisto. Per questi clienti avevo una serie di pizzini sui quali annotavo i miei crediti che immettevo in un pezzo di ferro filato fissato verticalmente a una base. In questo modo mi veniva facile stralciare l’appunto quando il mio debitore si presentava per saldare il suo debito.

Di solito i prezzi erano di base e costanti. Non facevo sconti perché sopportavo maggiori costi di trasporto delle altre botteghe in quanto ero io stesso a procurare la merce. A posto degli sconti, organizzavo degli incontri di gioco a carte ( briscola, scopa e tressette) e di biliardo e al vincitore davo qualcosa come premio. La mia bottega era anche una specie di bar, di ritrovo, di “circolo”: vendevo gelati e bibite e avevo lo spazio e i tavoli dove poter giocare.

Ho chiuso la bottega nel 1989 perché le altre botteghe, col tempo, si sono trasformate in supermercati e ciò comportava un calo nella mia attività. I prodotti che vendevo erano di meno rispetto a quelli venduti nei supermercati ed inoltre questi ultimi non avevano a carico i miei stessi costi di trasporto; la merce aveva una scadenza e io non riuscivo a venderla entro un certo periodo di tempo. Devo dire che questo mestiere era abbastanza redditizio ma con lo sviluppo dei supermercati i miei costi divennero superiori ai profitti e dunque continuare a mantenere la bottega aperta divenne poco redditizio.

Io e mia moglie siamo partiti da zero; non sapevamo niente di come si facesse il bottegaio, così, all’inizio, ho imparato qualcosa da un libricino, il "Libro Dei Conti Fatti", che avevo comprato alla tipografia Panta di Patti ed è stato grazie ad esso, il tempo, l’esperienza e un pizzico di fortuna, che diventai Turi da ghiesa u putiaru.

 

domenica 21 febbraio 2010

C'era una volta "a forgia du 'zu Pippinu"


S’è vero che treni, aereoplani e macchinine hanno accorciato le distanze è anche vero che hanno svuotato le strade togliendovi la vita che, a quanto pare, un tempo vi fioriva rigogliosa. Noi non c’eravamo. Queste cose le sentiamo raccontare. Si camminava, per le strade, a piedi e, certo, servivano ore per andare e tornare da Gioiosa. Questo non era comodo, né conveniente, ovvio, ma s’intrecciavano storie più vere di quelle che si possono intessere su uno squillo di clacson tra due auto in corsa nel senso opposto.

E così, camminando camminando, ci si può imbattere, oggi, in quelle pieghe dello spazio e del tempo di cui il mondo moderno sembra essersi dimenticato. Nella sua fretta, qualcosa dovrà pur lasciarsi indietro! Tra queste pieghe c’è una casetta, una stamberga, ormai, smangiucchiata dalla fame del tempo. Se le storie lasciassero echi sentiremmo ancora, passandoci vicino, il martellare, sull’incudine, del martello, qualche asino ragliare, schiamazzi di bambini e di ragazzi e la gente chiamare. E se le storie lasciassero odori sentiremmo ancora del carbone e l’odore pungente degli zoccoli bruciati.

Questa era ‘a forgia (la fucina) du ‘zu Pippinu. Costruita a San Francesco negli anni ’50 lungo il torrente Zappardino rimase in funzione per una ventina d’anni. Il lavoro cominciava la mattina, tra le 7 e le 7:30, e continuava fino a sera. La gente, contadini, falegnami, commercianti, vi portavano ad aggiustare gli attrezzi del mestiere e della casa (zappe, accette, coltelli…), si tosavano e si ferravano gli asini, i muli e i cavalli. Qualche ragazzo di tanto in tanto aiutava. E chi all’epoca era ragazzo ancora oggi racconta storie che germogliavano lì attorno.

Nei giorni di sole ci sediamo, a volte, sul muretto di Luigi, accanto a quel che oggi resta della forgia. Nel silenzio della campagna una macchina sfrecciante insegue il tempo, di tanto in tanto, lungo il torrente e somiglia, nel rumore, ad un moscone o ad un tafano, soltanto un poco meno elegante. Tra gli interstizi delle mura vecchi ferri di cavallo, una chiave e il grosso anello per legarvi i muli, immobile e arruginito. Aspetta chissà cosa. Arriva ogni tanto l’odore del carbone. Sembrano vere tutte le storie.


Nella foto in alto (da sinistra a destra): Nino Nardo, Peppino Spanò, Luigi Manfré, Peppino Giardina, Antonio Lena.
Nella foto in basso: quel che resta della vecchia forgia. Una vecchia casetta appoggiata al "Saloon" di Luigi e al tabacchino da 'Za Nina.


domenica 10 gennaio 2010

Ricordando... ...la tombola di Padre Carmelo.


C’erano ancora i bracieri (le "conche"), in quelle sere d’Inverno dei primi anni novanta, e le stufe quelle piccole, elettriche, coi tre tubicini incandescenti e i due bottoni per accenderne solo due o tutt’e tre. Le stanze troppo grandi per essere calde, volentieri ci s’acquattava sotto le coperte, quelle pesanti e marroni o a quadrettoni rossi e neri. Meglio erano le cucine a legna che, allora, come ora, facevano l’aria densa e pesante di calore. Tra panettoni, fichi secchi e noci, a completare il quadro l’albero di Natale fitto di luci e “stelle filanti” iridescenti e colorate, rosse, verdi e gialle e grosse come i salami che ora non s’usano più. C’erano pure, sicuro più c’adesso, le radio nelle nostre case.

Non poteva la nostra memoria, in queste sere d’Inverno, tra tombole e sett’e mezzo, non andare a quei tempi, quando Padre Carmelo, sull’esempio di Padre Pippo, faceva la tombola alla radio dalla chiesa di Casale, fredda e umida, allora come oggi. “Unni Ricu” e “unni Luigi” si compravano le schede per giocare da casa. Poi, a sera, Padre Carmelo e qualche decina di parrocchiani, tra sciarpe e giubbotti imbacuccati, cominciavano la tombolata in quella chiesetta alta dove il vento soffia forte e irrispettoso. Il gioco, trasmesso alla radio, era seguito da casa, da tutte le contrade, e una telefonata a Casale avvertiva dell’avvenuto ambo, terna o quaterna o quel che fosse. Poi si ritiravano i premi.

Un affettuoso saluto a Padre Carmelo che, in quegli anni, ci dedicò il suo tempo e la sua concretezza.