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giovedì 28 agosto 2014

I Ficalinni, ovvero i fichi d'india

fichi d'india
Tipico frutto dei panorami gioiosani è il fico d’india (opuntia ficus-indica).
La pianta, originaria del Messico, fu importata in Europa dagli Spagnoli intorno al 1500. Così, nella terra del sole, in Sicilia, il vegetale trovò il giusto clima e un buon terreno per attecchire e svilupparsi, crescendo anche spontaneamente senza l’aiuto dei contadini e fornendo dei succulenti frutti.  

Appartenente alla famiglia delle cactacee, la pianta presenta dei rami composti da cladodi a forma di pale spinose (“toppe”) sui quali si formano prima delle gemme, poi dei bellissimi fiori gialli o arancioni e infine i frutti. La fioritura ha inizio in primavera e la maturazione in estate, tra agosto e settembre. I frutti sono molto succosi e sono formati, all’interno, da polpa e da piccoli semi, e, all’esterno, da una buccia con spine piccole, sottili e distribuite in raggruppamenti circolari. Ne esistono di diverse qualità e colori: bianchi, gialli, rossi e arancioni.
Se mangiati in grandi quantità e a digiuno possono provocare una forma di stitichezza causata dall’accumulo di semini.
Il fico d’india è sempre stato utile agli allevatori e ai contadini perché le bucce dei frutti e le pale possono servire da nutrimento a vitelli, mucche e maiali quando vi è scarsità d’erba. 

fichi d'indiaPregiati sono poi i così detti “bastarduna”, cioè dei fichi d’india grossi e tardivi prodotti da una seconda fioritura artificialmente indotta tramite l’asporto (“sdocchiatura” in dialetto siciliano) delle toppe giovani e dei fichi d’india piccoli e acerbi nati dalla prima fioritura. L’operazione si effettua a metà giugno, tradizionalmente per Sant’Antonio, giorno 13. La pianta, dunque, produrrà una nuova tardiva fioritura i cui frutti giungeranno a maturazione in autunno, tra ottobre e novembre. 

Vecchie conoscenze ci raccontano aneddoti di quando erano bambini, di un’epoca dove si inventava e si costruiva con quel poco che si aveva, interagendo con la natura e i propri simili, quando molti beni elementari erano un lusso e difficilmente reperibili: sotto il sole cocente e le cantilene delle cicale, un gruppo di monelli nascondeva lungo un sentiero, e sotto una spolverata di terra per mimetizzarle, le “toppe” dei fichi d’india con le spine più lunghe e dure. Poi aspettavano in agguato che un passante scalzo percorresse quel tratto cadendo nella trappola.
Una sessantina di anni fa, si andava in giro alla ricerca di una varietà di fichi d'india selvatici, oggi usati per scopi ornamentali. Se ne raccoglievano i frutti per ricavarne un succo rossastro, molto scuro, che fungeva da inchiostro naturale nel quale intingere il pennino del calamaio. 
Infine, qualcuno ricorda che, durante la seconda guerra mondiale, gli americani percorrevano a cavallo i sentieri delle campagne gioiosane barattando sigarette in cambio di fagioli o cereali; fu allora che scoprirono questo frutto a loro sconosciuto provando a mangiarlo senza togliere la buccia e le spine!

venerdì 12 aprile 2013

U spinapulici, ovvero l'asparago selvatico

"I giardini di Marzo si vestono di nuovi colori, e i giovani asparagi regalano nuovi sapori". Lucio Battisti avrebbe voluto cantarla così, ma Mogol disse di no per un'indigestione d'asparagi.

L'asparago selvatico (asparagus acutifolius) è una delle piante selvatiche più popolari del circondario gioiosano. Tanto grande è la devozione verso questa pianta che torme di pellegrini si abbattono, nel mese di Marzo, sulle colline circostanti, per i dirupi, nei valloni, per cercarne i teneri germogli e friggerli con tanto di uova oppure abbrustolirli sulle braci delle conche (insomma, paiono cose d'altri tempi).

La pianta madre è detta - in dialetto - spinapulici (pungi pulci) per via delle foglie piccole, sottili e pungenti. Oggi come un tempo, se ne usano i rami, prima di San Martino, per proteggere la bocca delle botti da topi e zampalei (moscerini). Tuttavia, in questo ruolo, è spesso sostituita dai ricci di castagni.

C'è chi ne ricorda l'uso nei presepi, dov'era usata, a rappresentare gli alberi, con tanto di bacche rosse e dei ciuffetti di cotone a mo' di neve.

Foto: Il Pirata Pervinca.
Fonti: 
1. Esperienza diretta.
2. Cunti di Melina e u 'zu Giuvanni.

lunedì 11 marzo 2013

A filicedda, ovvero la cedracca

Tra le piante che sanno di fiaba, nelle campagne gioiosane, abbiamo la cedracca, anche nota con una pletora d'altri nomi (erba ruggine, asplenio, spacca pietre, ...). Formalmente ceterach officinarum. Localmente "filicedda" (piccola felce). Il nome scientifico deriva dal nome arabo. 

La si trova un po' ovunque nel circondario, insediata negli antichi muretti a secco, tra le mura dei ruderi nascosti tra gli alberi, tra le spaccature delle rocce. Tanto in piena luce, quanto in zone ombrose e umide. Qualcuno la annovera tra le "piante della resurrezione", similmente alle rose di Gerico, per la capacità di sopravvivere ai periodi aridi essiccandosi, chiudendosi a riccio e rallentando le funzioni vitali in attesa di tempi migliori.
Ne è documentato l'uso a scopi officinali fin dall'epoca medievale, ma non mancano riferimenti ad impieghi più fantasiosi: ad esempio, pare esista la credenza che le fronde, raccolte nelle notti senza luna, legate ad una donna, abbiano il potere di renderla sterile (!). 

Al meglio delle mie conoscenze, noi indigeni gioiosani non ne facciamo alcun uso, né erano soliti usarla i nostri immediati antenati.

Fonti e approfondimenti:
- Osservazioni in natura

lunedì 26 novembre 2012

L'Ombelico di Venere

Comunemente nota come Ombelico di Venere, a Gioiosa questa piantina perenne è comunemente anonima. Tuttavia è estremamente diffusa nel territorio. La si trova in luoghi umidi, specialmente abbarbicata a vecchi muri dove, assieme ad altre piante, forma composizioni pittoresche. Vista la predilezione dimostrata verso le pareti rocciose, i francesi la chiamano "ombelico delle rocce". Scientificamente è indicata come Ombilicus rupestris, horizontalis, erectus, chloranthus, etc etc... Ne esistono un gran numero di varietà. Quella presente a Gioiosa dovrebbe essere rupestris.

Curiosità: è una pianta ermafrodita.

Ulteriori informazioni: 
1. http://en.wikipedia.org/wiki/Umbilicus_rupestris
2. http://www.actaplantarum.org/floraitaliae/viewtopic.php?t=9




domenica 11 dicembre 2011

Sicomores, ovvero, i Fichi

"...Pedes de sicomores...li più grandi e li più meglio" era un tipico lascito testamentario nella Gioiosa del 1600. "Pedes de sicomores" erano i meglio noti "ped'i fica" (piante di fico) ancora molto diffusi nelle nostre colline. Nel 1608 "tre pedes", presumibilmente di taglia medio-grande, erano valutati, a Giojosa Guardia, 3 onze. Difficile comparare il potere di acquisto di un'onza con l'odierno euro. Una stima indica circa 200 euro.

Circa duecento anni dopo la preziosa pianta è più vivamente dipinta dalle parole del viaggiatore tedesco Carl Grass. Nel 1804 Grass si incammina lungo il torrente Zappardino: "...il 22 Settembre [...] la nostra strada ci portò prima per diverse miglia  nella Fiumara di Gioiosa della quale fino ad allora avevo visto solo la foce [...] sempre più il ruscello scorreva attraverso campi tranquilli [...] ruvuli, una specie di alte quercie, sporgevano i loro rami sulla strada, aranci, fichi, granati, facevano qui da corona ad una casa contadina. Là si vedevano pioppi avvolti da viti [...]. Tutto intorno però il terreno si mostrava quanto mai fertile. Alberi da frutto di ogni specie, soprattutto i fichi fanno qui a gara in grandezza, con gli alberi selvatici. Intorno alle molte capanne sparse solitarie qua e la si notava l'abbondanza delle viti. Volevamo comprare dei fichi; ma poiché non ne avevano di già raccolti, si permise alla nostra guida di salire sugli alberi e di raccoglierne gratuitamente quanti ne desiderasse..."

Ancora nel 1900 i fichi erano frutti dal gran valore. Nel mondo contadino, essenziale e povero di beni materiali, erano considerati una risorsa pregiata, gelosamente custodita. Racconta a 'Za Sarafina che "i fichi erano tenuti in gran considerazione! Ogni famiglia ne essiccava tipicamente una decina di chili, anche più. Alle volte una parte veniva venduta, ma la maggior parte restava in casa ed era custodita con cura affinché durasse nei mesi invernali. Una parte dei fichi, una volta essiccati, veniva aperta, farcita con noci secche e chiusa con uno spiedino. Poi, nei mesi invernali, i fichi secchi, farciti o semplici, venivano offerti agli ospiti, erano dati ai bambini e ai ragazzi...". A sottolineare la prelibatezza attribuita al frutto, e anche la fame piuttosto comune, la Zia Sarafina ricorda l'avventura del giovane Peppino: "A'Za Rosa tineva i fica 'nta na cascia chiusa a chiavi. U 'Zu Pippinu, carusu, nenti fici? Sbucò a cascia di sutta, unni non si videva, e quannu vuleva si ieva a pigghiava. Quannu a 'Za a Rosa iapriu a cascia pi pigghiari i fica, a cascia pareva ghina, ma appena i tuccò sinni calanu pirchi di sutta era vacanti. I fica avevunu 'llistutu!" ("La Zia Rosa custodiva i fichi in una cassapanca chiusa a chiave. Lo Zio Peppino, bambino, niente fece? Bucò la cassa dal basso e quando voleva prendeva i fichi. Quando la Zia Rosa aprì la cassa per prendere i fichi la cassa sembrava piena, ma appena toccò i frutti questi sprofondarono perché sotto non c'era più nulla. I fichi erano praticamente finiti!").

Oggi, nel terzo millennio delle nostre campagne, i fichi sono ancora comuni e, come duecento anni or sono, "fanno a gara, in grandezza con gli alberi selvatici". Ora meno apprezzati d'un tempo non troppo lontano (c'è meno fame, suggerisce qualcuno), ma, come in passato, come avvenuto per centinaia d'anni, i contadini inveiscono contro gazze, colombacci e merli che, a ragion veduta, glieli rubano al mattino presto, o nei pomeriggi assolati. Pare, purtroppo, che i frutti non siano più "quelli di una volta": spesso non se ne trovano buoni da seccare e cadono marci o malati prima di poter essere raccolti. 
Nonostante tutto, nelle serate natalizie, tra patatine e dolcetti dai colori sgargianti, spiccano ancora in un cesto di viria i fichi secchi (magari con la noce dentro).

Approfondimenti: 
  1. Pomona Italiana
Fonti:
  1. Gioiosa Marea, Dal Monte di Guardia a Ciappe di Tono e San Giorgio, Marcello Mollica, Armando Siciliano Editore.
  2. L'Altra Sicilia
  3. 'Za Sarafina, racconti di una Domenica pomeriggio.
Foto: Giusy

lunedì 13 giugno 2011

A Rusedda, ovvero il Cistus Salvifolius

fiori e bacche di cistus salvifolius
Il monte Castelluccio, scrigno di miti, leggende e vergogne, offre al viaggiatore, attento o sbadato che sia, uno spettacolo unico nel periodo di fioritura del Cisto Salvifolius o Cisto Femmina, noto dalle nostre parti come rusedda, benché con le rose abbia poco a che fare.

Il cisto è un arbusto tipico della macchia mediterranea. Non a caso e' una pianta eliofila, amante del Sole, quindi particolarmente diffusa alle basse latitudini dove i raggi del Sole sono poco inclinati rispetto alla superficie terrestre garantendo un elevato apporto di energia/luminosità. In altezza, il cespuglio, non supera i 50-60 cm; fiorisce nel periodo Aprile-Maggio. Il colore e le caratteristiche dei fiori cambiano a seconda della varietà (cistus salvifolius, creticus, albidus,...). Il salvifolius, quello presente nella nostra zona, ha i fiori bianchi e gialli al centro, estremamente delicati. Nonostante la fragilità del fiore la pianta si dimostra resistente alla siccità e agli incendi (elementi tipici delle colline e della cultura Siciliana, a noi piace appiccare incendi. Ce lo insegnano fin dall'asilo!). Dopo le avversità della Natura e della Cultura il cisto ritorna alla vita dalla germinazione dei vecchi semi. Difatti, e' facile ottenerne la riproduzione da seme o talea.

Nella nostra zona lo si trova certamente da S.Francesco a Castelluccio, particolarmente diffuso nella zona alta (da Rinedda in poi).

fiori e foglie di cistus salvifolius
Cistus Salvifolius, fiori e foglie.

cistus salvifolius nella roccia

Foto: Davide, Tindaro Buzzanca
Ulteriori Informazioni: Wikypedia

domenica 15 maggio 2011

"A Paparina", ovvero "Il Papavero"

Aneddoti e dati di un fiori dei nostri campi

In questi giorni di Maggio, quando la Terra sembra ricordarsi il significato della parola "Vita", le nostre campagne si rivestono di verde, fiori ne adornano le scoscese colline e animali d'ogni sorta s'adoperano a mandare avanti la vita. E così riscopriamo il piacere di osservare le piccole cose che circondano le nostre case: fiori di campo, uccelli, insetti nel loro tripudio di colori e danze.

 "A paparina", come la chiamano dalle nostre parti, o "il papavero", in italiano corrente, lo si trova, in questi giorni di Maggio, negli orti e in aperta campagna. Ne esistono un centinaio di specie sparsi nel mondo (Eurasia, Africa, Nord America), caratterizzati da colori diversi (rosso, arancio, rosa, viola, giallo,...), diverse foglie e diversi "frutti".

Il papavero, questo fiore che troviamo nei campi, ai bordi delle strade, dipinto in memorabili quadri, si porta dietro una lunga, lunghissima storia: ad esempio, già nel 5000 A.C. era coltivato in Mesopotamia a scopi ornamentali; nella mitologia greca era associato a Demetra, dea della fertilità e dell'agricoltura; è stato trovato in antiche tombe egiziane; nei secoli è stato ampiamente usato come droga (oppio) e a scopi culinari e tanto altro ancora. Quindi, guardiamolo con più rispetto!

In attesa di una più precisa classificazione (help!) ecco alcuni dei "nostri" esemplari:

Papaver Setigerum (Papavero Setoloso)
Quello in cui ci siamo imbattuti sembra essere un esemplare di Papaver Setigerum, o Papavero Setoloso, comune lungo le coste occidentali dell'Italia, in Sicilia e in Sardegna. E' caratterizzato da lobi fogliari acuti e terminanti con una breve setola.

Un esemplare Papaver Setigerum
(o Papavero Setoloso)
Il fiore.

Papaver Setigerum
Foglie e boccioli. 


Papaver -non sappiamo cosa-
In attesa di ulteriori dettagli ecco le foto di un altro papavero comune nella nostra zona. Notare le differenze nei petali e le foglie.



Da notare il diverso tipo di foglie e gambo.
Aneddoti
Il papavero, si sa, costituisce la base dell'oppio. Citando Wikipedia: "L'oppio è uno stupefacente ottenuto incidendo le capsule immature del Papaver somniferum e raccogliendone il lattice che trasuda, che poi viene lasciato rapprendere all'aria in una resina scura che viene impastata in pani di colore bruno, che emanano un odore dolciastro e hanno un sapore amaro". Non fate pensieri strani, il Papaver somniferum non ce l'abbiamo eppure...
Correva l'anno 1914, la prima guerra mondiale chiamava al fronte i giovani italiani e qualcuno, cercando di evitarla, si imbarcava, da clandestino, sulle navi in partenza per l'America sperando, al contampo, di  trovare fortuna al di la del mare. Fu cosi' che due contadini di Francari (contrada del Gioiosano, per i lettori d'oltralpe) si imbarcarono, da clandestini, con l'intento di raggiungere gli Stati Uniti. Come che fu, la nave in America non giunse mai perché diretta in Cina. I viaggiatori, clandestini, non poterono certo lamentarsi dell'errore col Capitano e fu così che in Cina scesero e vi rimasero. Dopo tre anni uno dei due tornò nell'amata Sicilia, o meglio, nell'amata Francari, più precisamente verso il Serro (altra nota zona del Gioiosano, sempre per i lettori...) e lì trascorse gli ultimi anni della sua vita. Ne porto' ricchezze dall'Oriente? Di sicuro torno' con lunghi baffi intrecciati, un servizio di posate cinesi, un narghile' e semi di un papavero bianco. Per lunghi anni lo si trovava, il vecchio contadino, adagiato in una "rutta" (un abbozzo di grotta), a fumare l'oppio che lui stesso produceva dai papaveri del Serro.


Che fine hanno fatto i papaveri bianchi del Serro? Qualcuno dice che fino a vent'anni fa crescevano ancora lì dove lui era solito seminarli.     
(Anonimo)

Fonti ed Ulteriori Informazioni:
Natura Mediterraneo
http://it.wikipedia.org/wiki/Papaver
http://en.wikipedia.org/wiki/Papaver
Tindaro Buzzanca
Anonimo

Foto: Giusy, Tindaro Buzzanca

martedì 12 aprile 2011

Erica Arborea

Nell'assolata campagna siciliana, ancora spesso indomita e fiera, sotto cieli azzurri e tramonti infuocati, si incontrano colori e profumi antichi.

Noi che le campagne di Gioiosa le abbiamo percorse in lungo e largo vogliamo raccogliere in queste pagine informazioni sulla flora e la fauna in cui ci s'imbatte passeggiando per le trazzere, i noccioleti e le vaste zone incolte che circondano il nostro paese. Non siamo botanici, né esperti biologi, quindi vogliate scusare le inesattezze, le approssimazioni, ma considerate queste pagine come una traccia dalla quale prendere spunto per avere un'idea di quale piante e animali potreste incontrare sulle colline circostanti.  Sono ben accette ulteriori informazioni sul soggetto (usi domestici, aneddoti) e la segnalazione di eventuali errori. Inestimabile in quest'arduo compito è l'aiuto offerto da quanti partecipano al forum  Natura Mediterraneo.

Cominciamo col presentare una pianta rude e selvatica al pari di poche altre ma dall'aspetto meraviglioso nel periodo di fioritura (Marzo - Aprile), molti la conoscono, molti l'avranno incontrata, stiamo parlando dell'erica.

Erica arborea fiorita.

L'erica è particolarmente presente nella zona alta di Gioiosa Marea, ovvero nella zona circostante la pineta rocca saracena, la località nota come "Rinedda" e il monte Castelluccio dove cresce in arbusti alti fino a un paio di metri.

Sul territorio italiano ne esistono vari tipi ma centinaia di specie sono sparse in tutta la zona mediterranea, Africa, Madagascar ed altre regioni d'Europa. In Italia troviamo l'erica carnea, presente al nord e in Toscana, l'erica multiflora, la rarissima erica manipuliflora, presente anche in Sicila, e l'erica arborea. Quest'ultima, la cui fioritura avviene in primavera (a differenza della multiflora che fiorisce in Autunno), è quella presente a Gioiosa. La sua presenza è indice di suoli silicei o acidificati.

Usi
Ne conosci qualcuno? Faccelo sapere!

"Agli  inizi degli anni sessanta, nella zona di Castelluccio,  degli operai provenienti  da S.Angelo di Brolo hanno  tagliato  tutte le eriche della zona per estrarre  le radici. Hanno fatto un grande spiazzo un po’ più in basso della sommità che serviva da deposito. Alla fine hanno trasportato tutto il materiale con dei sacchi giù a valle nella zona 'Mulino Feu' e da qui caricati su dei carretti  con destinazione stazione ferroviaria di Gioiosa Marea. Dalle radici di  erica arborea  si facevano e si fanno ancora delle pipe pregiatissime e dei mobili."
"Ricordo anche che noi usavamo le radici dell’erica per fare le bocce che servivano per giocare 'e brigghia' essendo un legno molto duro e facilmente modellabile".
Tindaro Buzzanca

Fiori dell'erica arborea.
Cresce in arbusti dall'altezza variabile da poche
decine di centimetri fino ad un paio di metri.


Ulteriori Informazioni
Natura Mediterraneo
http://it.wikipedia.org/wiki/Erica
http://en.wikipedia.org/wiki/Erica

Foto: Giusy, Tindaro Buzzanca.