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lunedì 19 agosto 2013

A cucuzza (la zucchina)

La campagna gioiosana prolifera, nel periodo estivo, di zucchine - specialmente le famigerate "di quaranta giorni" - servite in tavola, fino all'Inverno, nei modi più disparati: alla griglia, fritte (con uova o senza), in pan di spagna con nocciole, bollite con la pasta, "a bugghiuneddu" con patate e pomodoro, candite, nel risotto coi gamberetti, nella pasta con spek e ricotta al forno e in cento altri modi escogitati dal genio pratico, stregonesco e luciferino, delle donne di casa di questo e di quell'altro tempo. Così, l'amore del gioiosano verso tale ortaggio ha sviluppato radici talmente profonde e aggrovigliate col quotidiano da essersi meritato una filastrocca pescata a pelo dalla superficie del vasto mare del dimenticato. Così dice:

L'urtulanu chi chianta cucuzzi
avissi a iri maschiratu in chiazza.
La manu chi la chianta fora muzza
e l'autra mazziata cu na mazza.

Odverus*:

Il contadino che coltiva zucchine
dovrebbe nascondersi la faccia.
La mano che la pianta dovrebbe essere amputata
e l'altra percossa con una mazza.

A Gioiosa il termine "cucuzza" indica non solo zucchine, ma pure zucche, ed è usato in maniera spregiativa per indicare meloni e angurie di poco sapore (si dice, per esempio, "stu muluni è cucuzza", "questo melone è zucchina").

Fonti: esperienza diretta & discussioni cu 'zu Peppi.
Note: * questa parola dal sapore latino non esiste ma ci stava bene.

lunedì 10 dicembre 2012

Na 'razioni pi quannu lampia (Un'orazione da recitare durante i temporali)


Dall'antro buio della tradizione orale salta fuori questa "razioni", un'orazione, antica, non più in uso, al limitare dell'oblio:

San Giuvanni e San Gilormu, 
quantu è ranni lu vostru nommu!
Non durmiti ma vigghiati,
ca li lampi su addummati.
Scuru si voscu salutannu me.
Maria domine me, 
li me su fatti.
Commu sarvati a me,
sarvatini a tutti quanti.

La traduzione è dubbia. Restano buchi e parti poco sensate:

San Giovanni e San Girolamo,
quanto è grande il vostro nome!
Non dormite, ma vegliate,
giacchè i lampi son'accesi.
..........................................?
Maria, mia signora, 
i miei (?) sono fatti (?).
Come salvate me,
salvateci tutti quanti.

Anche i più anziani non hanno saputo tradurla in un testo di senso compiuto, quindi è probabile che alcune parti siano mancanti o travisate. Così, volendo speculare sull'originale significato, potremmo  ipotizzare che "Scuru si voscu salutannu me" derivi da una formula simile a "Scuru si boscu, si lu dannu me", ovvero "Bosco sei buio, sei il mio danno"; e la frase potrebbe aver tratto origine dal fatto che l'orazione, forse, era recitata da viandanti o pellegrini quando attraversavano un bosco buio durante un temporale. Non ci è dato saperlo.

Ci sono elementi a supporto dell'ipotesi che l'orazione discenda direttamente da Gioiosa Guardia (abbandonata sul finire del 1700). E' documentato, per esempio, che morire colpiti da un fulmine non era cosa rarissima (Gioiosa Guardia dimorava sulla vetta del Meliuso, risultando l'oggetto più elevato entro un raggio di vari chilometri). C'era quindi ragione di chiedere protezione ai santi. E uno dei santi protettori di Gioiosa Guardia fu appunto San Giovanni che appare in un quadro, raffigurato assieme ad altri santi, mentre intercede verso l'Onnipotente il quale scaglia saette sul (fu) ridente paesello. L'interpretazione più accreditata dell'evento dipinto è che Dio s'era stancato del fatto che i gioiosani, sebbene in quaresima, continuassero con le loro carnavalate (serate danzanti, bevute e quant'altro). Difatti il bambino/angelo sulla sinistra, guardando verso la terra, puntava il dito sul calendario apostrofando i gioiosani: 
-"u viditi chi jornu è!? Semu in quaresima. L'at'a finiri i ballari!" Nel frattempo San Giovanni intercedeva: - "Ca lassatili perdiri, va! Manciari già nunn'anu pi tuttu l'anno, a televisioni ancora l'anu invintari. E c'an'a fari!?"
San Rocco sulla sinistra: "Ca cummu vi poti u curi?"
Santa Barbara al centro, protettrice contro saette e temporali: - "Ah! Viditi ca vi pigghi 'ssi lampi e va fazzu finiri na vota pi tutti!"
Santa Rosalia prendeva appunti di questo dialogo e scriveva l'orazione originale.

Cosa centra San Gilormu in tutto questo? Mistero buffo. Tuttavia pare che in paese ci fossero delle cappelle in onore di San Girolamo e, difatti, il nome era comune tra i gioiosani.

Anche questa ipotesi sull'origine dell'orazione resta, per l'appunto, solo un'ipotesi senza un solido supporto. Insomma, misteri del mio paese. Chi conoscesse una versione più completa di questa orazione, o una sua variante, o qualsiasi notizia rilevante, è il benvenuto a postarla qui sotto. 

Figure:
1. Particolare del quadro riportato in basso. Questa è considerata l'unica rappresentazione attendibile di Gioiosa Guardia.
2. Quadro di Santa Barbara.

Fonti e aprofondimenti:
1. Discussioni con Rossana e Pina.
3. "Gioiosa Marea, dal Monte di Guardia a Ciappe di Tono e San Giorgio", Armando Siciliano Editore, Messina, 2003.
4. Discussioni con Marcello Mollica.

Note:
1. L'interpretazione del quadro fornita sopra è la più accreditata nella mia testa.



domenica 26 settembre 2010

U sulici e u purceddu


Sfogliando scritti antichi, dai papiri egiziani del 2000 A.C. fino ai più recenti Esopo, La Fontaine e i fratelli Grimm, è facile capire che da tempi immemorabili l'uomo ha cercato di tramandare  gli insegnamenti della vita dando agli animali intelligenza, parola, pensiero e tratti umani. Nascono così le favole, spesso tramandate per via orale di generazione in generazione. Spesso, poi, scopriamo che una favola non è altro che una versione poco diversa di un'altra antica di millenni. Segno che, forse, è proprio vero: niente di nuovo sotto il cielo.
Abbiamo deciso, così, di raccogliere, in lingua originale, favole dei nostri luoghi (la traduzione segue il testo in dialetto). Ecco la prima:


"U sulici e u purceddu"
C'era na vota un sulici e un purceddu. I du cumpari ievanu d'amuri e d'accordu: u porceddu manciava 'ntò sò scifu e u sulici ci ieva d'appressu pi si pigghiari chiddu chi l'autru lassava.
Allura, u porceddu, chi era sempri ben servitu, sfuttennu u sulici ci dissi: "Cumpari, vidi chi bella vita chi fazzu jò! Sugnu sempri ben sirvitu e riviritu e non mi manca mai nenti. Tu, inveci, chi vita misira e di fammi chi fa!"
E u sulici ci arrispusi: "Caru cumpari, chiddu chi dici tu è veru, ma a me chistu mi basta e mi sta beni!"
Ogni jornu si incuntravanu facennu u stissu discursu e u purceddu non fineva mai di vantarisi da sò bella vita. Allura, na vota di chisti, u sulici ci dissi: "Ma ta pozzu diri na cosa?"
U purceddu, surprisu, rispunniu: "Certu chi ma pò diri!"
E u sulici ripigghiò: "Cumpari, jò fazzu na vita misira, ma tu non mi pari u stissu di l'annu scorsu!"


"Il topo e il maiale"
C'era una volta un topo e un maiale. I due compari andavano d'amore e d'accordo: il maiale mangiava nella sua mangiatoia e il topo prendeva ciò che l'altro lasciava.
Allora, il maiale, che era sempre ben servito, canzonando il topo diceva: "Amico, vedi che bella vita che faccio io! Sempre ben servito e riverito e nulla mi manca! Tu, invece, che vita misera che fai!"
E il topo rispondeva: "Caro amico, quello che tu dici è vero, ma a me questo basta e mi sta bene!"
I due s'incontravano ogni giorno e, facendo lo stesso discorso, il maiale non finiva mai di vantarsi della sua bella vita, allora, un giorno, il topo gli disse: "Ma posso dirti una cosa?"
Il maiale, sorpreso, rispose: "Certo che puoi! Dimmela!"
E il topo riprese: "Amico, io faccio una vita misera, ma tu non mi sembri quello dell'anno scorso!"

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Sorgente: Turi da Ghiesa